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Scrivere per lavoro

Aggiornamento: 11 giu 2023

In Italia c’è un atteggiamento schizoide nei confronti della figura professionale dello scrittore: da un lato amata, celebrata e ammirata a volte fuori misura, scomodando paragoni illustri e una tradizione nazionale e dall’altro osteggiata e criticata, come fosse considerata in qualche modo parassitaria.

La situazione che si sta creando oltreoceano è un modo per prendere una certa distanza e guardare le cose con una prospettiva neutra, che permetta di comprendere le ragioni del cambiamento in atto senza rischiare di prendere una deriva partigiana che ci fa schierare in una delle due trincee prima ancora di aver davvero quale sia la posta in gioco e, più in generale, innescare una riflessione sull’impatto che le abitudini di consumo di prodotti di intrattenimento hanno sull’industria dei contenuti e sul potere delle piattaforme, a scapito di ogni tipologia di lavoro creativo.


Il 1° maggio, festa dei lavoratori, gli sceneggiatori americani potrebbero posare le penne, minacciando così una paralisi di Hollywood e delle piattaforme che distribuiscono film e serie nel mondo. 11.000 sceneggiatori rappresentati dalla WGA, in trattativa per ridefinire i nuovi contratti e salari minimi per i prossimi anni con AMPTP - i rappresentanti dei produttori cinematografici e televisivi, cioè il complesso dei produttori e distributori che include Disney, Universal, Sony-Columbia e Warner Bros. - ma anche con le principali piattaforme di streaming come Amazon Prime Video e Netflix, decideranno se autorizzare il sindacato a indire uno sciopero. E la fumata attesa pare nera.


Ci viene subito in mente lo sciopero del 2008, quando la paralisi durò 100 giorni che costarono all'economia di Los Angeles circa 2,1 miliardi di dollari. E come nel 1998 (e nel 2001, per la verità) il punto che non si riesce a scogliere è la retribuzione legata alle nuove tecnologie: le rivendicazioni dei writers allora avevano a che vedere con le retribuzioni spettanti da vendite e noleggi dei DVD (i DVD!...) nel mondo post-pandemico invece il pomo della discordia è lo streaming, che ha cambiato usi e consumi, è arrivato a rivoluzionare il modello industriale: negli ultimi 5 anni l’investimento degli studios è quadruplicato, passando da 5 a 19 miliardi di dollari l’anno in produzione.




Ciò è dovuto alla corsa agli abbonati e all’adozione del famigerato “modello Netflix” da parte della major che, per fronteggiare i mancati introiti dovuti ai fallimenti delle sale e alla riduzione degli schermi, si attrezzano con piattaforme proprietarie che si contendono l’attenzione del pubblico. Il boom in termini numerici della domanda di prodotti di intrattenimento (600 inediti nel 2022) ha dato da lavorare agli sceneggiatori, è vero, ma i loro compensi sono scesi in media del 4%.


“Eh, ma quelli guadagnano milioni!”. Di fatto è la tesi delle case di produzione, che lamentano una situazione di incertezza economica generale, aggravata dal raffazzonato cambio di modello distributivo. Dopo anni di crescita verticale, il settore è nel mezzo di un consolidamento strutturale che ha visto l’emergere di conglomerati come la nuova Disney con Fox o Warner-Discovery. Nessuno pensa che la profliferazione di piattaforme in competizione tra loro sia sostenibile sul lungo termine e si prevede un rallentamento della «peak Tv» che ha alimentato il boom delle serie. (Insomma, “tirate la cinghia che fra poco vi mungiamo meno”.) Certo, i nuovi protagonisti a Hollywood sono colossi nati nella Silicon Valley e con vaste riserve, ma è anche vero che proprio i giganti del tech sono in fase di ridimensionamento degli organici: i licenziati dalle big-tech lo scorso anno sono stati più di 200.000…


Ma le ragioni dello sciopero non riguardano solo un carico di lavoro espanso: si è modificato sia come gli sceneggiatori lavorano, sia i modi con cui viene valutato il successo dei prodotti e quindi come sono calcolati i proventi del diritto d’autore.

Le piattaforme, che agiscono da distributori ma spesso anche da produttori, hanno esigenze diverse rispetto agli studios tradizionali e il diverso funzionamento della fruizione e della distribuzione online di serie e film comporta un diverso calcolo della retribuzione per gli sceneggiatori.


I “residuals”, più o meno quello che intendiamo con “compensi da diritto d’autore per sfruttamenti successivi” sono ancora calcolati in base alle repliche. Le repliche!

È il vecchio sistema: più una serie o un film viene acquistato per le repliche, più significa che ha successo e, ogni volta che c’è un nuovo acquisto, gli sceneggiatori hanno diritto a dei proventi.

(uno scrittore doveva azzeccare un grande successo in carriera per garantirsi una rendita stabile.)

Oggi è online che avviene la grande parte della vita di serie e film e il sistema di calcolo basato sulle repliche non può funzionare più, perché i film rimangono a tempo indefinito sui cataloghi delle piattaforme e non devono più essere riacquistati periodicamente.

Il punto è che, come noto, è politica delle grandi piattaforme non divulgare i dati di fruizione. A partire da Netflix, queste ritengono che il mantenimento di una certa segretezza riguardo i dati di fruizione dei loro prodotti sia una chiave del proprio successo. Non è possibile sapere in modo ufficiale quante persone abbiano visto una certa serie su Prime Video o Disney+ a meno che non siano le piattaforme stesse a divulgare l’informazione (con tutti i limiti che può avere un soggetto che racconta i suoi stessi successi e nasconde come può gli insuccessi). Non esistono società terze come Nielsen o Auditel che rilevano ascolti/click/ minuti visti da un certo contenuto, quindi anche il calcolo dei proventi che spettano agli sceneggiatori in caso di “successo” è nelle mani degli stessi soggetti che devono fare quei pagamenti: “Allora, come sta andando?” “Benino…” “Ma ho letto che--” “Eh, quello è marketing.”


Oggi agli sceneggiatori è chiesto un maggiore lavoro in fase di proposta. Prima la necessità di realizzare un episodio pilota, cioè una prima puntata o le prime due puntate di prova, comportava una buona paga per il lavoro di ideazione e impostazione di tutta una serie, anche se poi questa non entrava in produzione. Ora invece le serie vengono ordinate per intero dai committenti, dunque servono più riunioni per il lavoro di scrittura preparatorio, che è retribuito molto poco: in buona sostanza, uno sceneggiatore scrive più di prima per una paga minore nella speranza che il progetto parta (più un progetto è articolato dettagliatamente, più ha speranze di essere approvato).


Ma, oltre al problema dei pagamenti successivi al primo sfruttamento, c’è anche un grosso problema sulla retribuzione principale, cioè il guadagno dato dall’aver scritto dei copioni, e questo tocca chi scrive serie. Fino alla seconda metà degli anni 2000, una serie era composta da 22 episodi per ogni stagione, ognuno di 45 minuti se drammatica e 22 se commedia.

Uno scrittore poteva mantenersi con un ingaggio in esclusiva per lavorare a una serie per un anno e non accettare altri lavori; da quando le stagioni hanno iniziato a diventare da circa 10 episodi, e anche la paga si è dimezzata in proporzione, non è scomparsa la clausola di esclusiva da molti contratti: non possono cioè lavorare contemporaneamente a più progetti. In caso di lavoro di riscrittura, normale, non è prevista una retribuzione extra come in precedenza, perché le piattaforme non pagano più a settimana, ma a obiettivo.

Uno sceneggiatore è quindi compensato per la scrittura di una stagione a prescindere dal tempo che richiede o dal lavoro aggiuntivo che fa, non può lavorare per altri ed è pagato la metà. E teniamo fuori la disponibilità al lavoro sul set. Turbocapitalismo, ci viene da dire.


Un mestiere che, al pari di tutti gli altri nell’industria del cinema, è composto quasi esclusivamente da contratti brevi e quindi non ha garanzie, compensava quest’assenza con buoni guadagni e buone rendite, ora è diventato una croce: Le proporzioni: consideriamo che una casa di medie dimensioni in una zona non particolarmente richiesta di L.A. può costare anche un milione di dollari.

Visto che fuori dai nostri confini non ci si vergogna a parlare di denaro, la sceneggiatrice Brittani Nichols ha raccontato che per la serie Abbott Elementary (Disney) riceve 70 dollari all’anno in residuals, quando in precedenza le repliche in prima serata di un suo copione potevano fruttare anche 13.000 dollari l’anno. Gli sceneggiatori guadagnavano mediamente tra i 10.000 e i 20.000 dollari l’anno per le repliche di un singolo copione, mentre ora guadagnano tra i 100 e i 200 dollari.

Nel 2023 moltissimi sceneggiatori si sono trasferiti, rinunciando a infinite opportunità; alcuni hanno smesso di fare solo quel lavoro e ne hanno altri part time che non hanno a che vedere con la scrittura; altri ancora continuano a scrivere in condizioni che non vogliono accettare. Vi ricorda qualcosa?



In seguito all’agitazione del 2008 ci furono ritardi nelle produzioni e copiose cancellazioni di film e serie come Lost, la cui stagione tardò ad andare in onda. Oggi non c’è nessuna accelerazione per chiudere le sceneggiature in fase di scrittura prima del possibile sciopero, perché in questa fase di rivalità tra piattaforme ogni studio ha molti contenuti già scritti per via della pandemia (quando si è scritto molto e si è girato girato poco): sarebbe possibile spostare al 2025 le produzioni previste per il 2024 che si fermerebbero dopo lo sciopero, e compensare sul 2024 distribuendo alcune uscite 2023 che sono già in ritardo per motivi di produttivi.


Se consideriamo la crescita in popolarità di contenuti stranieri come Squid game, Lupin o La casa di carta, le piattaforme sanno che c’è un pubblico disposto a seguire produzioni non americane. Questo offre un’alternativa agli sceneggiatori di Hollywood: gli sceneggiatori del resto del mondo. Che pretendono meno.

Un anno fa, il tonfo in borsa di Netflix, dovuto al calo di abbonati per due trimestri consecutivi, aveva provocato una crisi nel settore: gli studi che si erano mossi molto in fretta per aprire le loro piattaforme di streaming, ipotizzando fosse quello il futuro del settore avevano dovuto rivedere le strategie.

Oggi stanno cercando di riemergere dai debiti che hanno contratto, e non solo non sono nelle condizioni di aumentare le paghe o versare quote maggiori di diritti d’autore, ma sono proprio in una fase di tagli. Nel 2022 quasi tutti hanno licenziato, cancellato film in produzione e annullato progetti in approvazione. Paradossalmente, lo sciopero può aiutare queste società a tagliare i costi, evitando così un crollo dei loro titoli in borsa. In caso di sciopero prolungato si attiva per molti contratti una clausola speciale chiamata Force Majeure, che annulla il contratto per causa di forza maggiore come può essere lo scoppio di una guerra, una calamità naturale… quindi gli studios, che al momento già accettano di tagliare produzioni pagando penali, grazie allo sciopero potrebbero non pagare niente.


La rinegoziazione degli sceneggiatori anticipa quelle del sindacato dei registi (DGA) e degli attori (SAG), che seguono la vicenda molto attentamente: anche loro, sebbene colpiti meno degli sceneggiatori, hanno il problema di diritto d’autore fortemente ridotto. Aumentare la quota da versare agli sceneggiatori o cambiare la maniera in cui questa viene calcolata significherebbe sicuramente doverlo fare anche per registi e attori. Un effetto domino.


E qui in Italia? Ci sono i doppiatori che scioperano, e poco altro.

Come in tutte le periferie, si attenda che la mareggiata si abbatta altrove, prima di muoversi frettolosamente e rischiare di bruciare risorse. La situazione è intricata e il problema complesso: il dibattito è aperto ma in un mondo in cui Disney sta tagliando 7000 posti di lavoro e Warner Bros-Discovery ha un debito di 50 miliardi, le sempre più frequenti "mini-writing-room” in cui sceneggiatori sottopagati lavorano per 2 o 3 mesi su contenuti non ancora opzionati dagli studi (e che per questo vengono paragonate a "campi di lavoro che sanno di chiuso”) per quanto possono essere ancora a soluzione?


Buon Primo Maggio

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